I palazzinari, i faccendieri, gli speculatori, quelli che fanno affari con gli emirati arabi, che a loro volta investono a Porta Nuova, quelli che costruiscono e dimenticano, quelli che apriamo la finestra e c’è un ecomostro, quelli che i progetti si finanziano ma non si realizzano, magari anche quelli che dovrebbero regolare le trasformazioni della città e invece subiscono i flussi di favori e gli equilibri tra gruppi immobiliari, cooperative, partiti, quelli che appoggiano l’uno o l’altro.
E per forza che ci pare cosa strana che uno di loro (questi alieni), sia stato, alla fine, smascherato.
Eppure questo arresto non risponde ancora alle domande fatte sotto la torre, non risponde ai sogni che nella torre, in centinaia, abbiamo immaginato.
Lei è rimasta uguale, ferma; la sua immobilità ci ricorda che un arresto non è sufficiente a rispondere.
Se guardiamo all’oggi, c’è un corpo normativo che definisce illegali alcuni comportamenti della proprietà di Galfa.
Se guardiamo a ieri, quella stessa proprietà ha costretto a riconsegnare Torre Galfa al niente dell’abbandono. Ha potuto farlo non solo per il prestigio, il denaro, le conoscenze e le relazioni – costruite a cavallo tra politica e affari; ma perché a fronte di questo potere non c’era (non c’è) nulla che parli invece in nome dei cittadini. Nulla che trasformi in norma , che provi a porre rimedio alla percezione fisica e psicologica del brutto, a quel dispiacere per l’abbandono, a quel senso che la città sia espropriata, sequestrata dalla finanza e dai grandi eventi; ma anche nulla che ascolti e che renda possibile i desideri che questa città ancora ci lascia sognare, che sono dei più diversi: di luoghi in cui semplicemente stare insieme e nutrire la voglia buona di riconoscersi tra persone e mettere in comune qualcosa; desiderio di verde (orizzontale, da camminarci, se fosse possibile); e anche di spazi in cui creare, immaginare e produrre relazioni insieme a economie insieme a (questo mostro che rende possibile il cambiamento, e anche se non lo rende possibile, ce ne appropriamo fosse l’ultima cosa che possiamo avere – ovvero il) conflitto.
Immaginate quello che proviamo nel guardare la continua stratificazione di questa città, le sue trasformazioni sempre meno comprensibili rispetto ai bisogni delle persone, i movimenti di capitali, i vuoti riempiti dai nuovi progetti e i vuoti che rimangono vuoti a causa dei nuovi progetti (che prima vengono finanziati e poi il finanziamento non basta o sparisce) e i vuoti che rimangono vuoti nonostante si costruisca altrove.
Immaginate che ci sentiamo nudi, ma che lo stesso abbiamo la forza di parlare, di scrivere, di indicare, di allargare le maglie di questo tessuto e farne esplodere le contraddizioni. Immaginateci nudi con la bellezza di un corpo che è prezioso, ma che non si vende come altri corpi; fragile e potente, come le cose che abbiamo da proteggere: lo spazio della città in cui ci muoviamo, il tempo che dedichiamo a costruirla.
19 luglio 2013